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Ho 48 anni, ho due figli e vivo a Roma. Mi piace viaggiare, fotografare, leggere e andare in moto. Mi interessa tutto ciò che riguarda la tecnologia. Sono appassionato di politica e di sindacato, che seguo anche a livello europeo per conto della Falbi. Sono un tifoso giallorosso: della Roma e della squadra della mia città di origine, il Catanzaro.

giovedì 3 settembre 2015

L'America - Impressioni di viaggio: 1. I pregiudizi, l'arrivo e i controlli di sicurezza

Non ho mai avuto un interesse particolare per gli Stati Uniti, un Paese che ho sempre ritenuto lontano, ma allo stesso tempo vicino; un Paese con una storia troppo breve da poter meritare un lungo viaggio. 

Ho sempre pensato, inoltre, che prima o poi mi sarebbe capitato di andarci, e non ho mai preso in considerazione gli USA quando sceglievo una destinazione per un viaggio: ho sempre preferito visitare quasi tutti i Paesi della vecchia Europa, e fare qualche divagazione in Paesi come l'Egitto e il Marocco, piuttosto che destinare tempo e risorse economiche verso gli States. 

E quando ho voluto fare un lungo viaggio, la scelta è caduta sul Nuovissimo Mondo, su Australia e Nuova Zelanda, che hanno sempre suscitato la mia attenzione, sin da quando, bambino, amavo trascorrere le ore a guardare il mappamondo e sognavo di andare nel posto più lontano possibile, agli antipodi.

Alla fine il momento è arrivato: avevo tante miglia in scadenza, i ragazzi sono cresciuti, e negli anni il mio interesse per gli States è man mano aumentato. E poi quel "prima o poi mi sarebbe capitato di andarci" non si era ancora mai avverato.

Ciascuno di noi ha un'opinione e dei pregiudizi sui popoli; a me gli Americani non sono mai piaciuti più di tanto. Hanno ancora la pena di morte, pensano di essere i padroni e i giudici del mondo, mangiano male, sono un mix di razze e di popoli senza una vera identità, pensano troppo ai soldi, agli affari, e ho sempre faticato a comprendere il loro Inglese. Ho sempre ammirato, d'altro canto, la loro capacità di essere un popolo unito, nonostante la loro giovane storia e nonostante il fatto che siano una federazione di ben 50 Stati.

Ma viaggiare vuol dire anche e soprattutto vedere cose che ci piacciono e non ci piacciono, verificare la fondatezza dei propri pregiudizi, ed eventualmente rimuoverli o rafforzarli.

Ho deciso, nella costruzione del mio itinerario di viaggio, durato quindici giorni, di dedicarmi solo ad una parte degli Stati Uniti. E ho scelto la East Coast, la più antica, ma soprattutto la parte di America in cui si trova New York. 

E ho deciso, inoltre, di non partire da New York, ma di iniziare il viaggio da Boston, di vedere qualche bellezza naturale del New England (l'unica cosa che mi affascinava degli States, a livello paesaggistico, erano i fari del Maine), e solo dopo qualche giorno sono arrivato nella Grande Mela.

Vorrei evitare, in questo post, di stilare un diario di viaggio, come è già avvenuto lo scorso anno, quando ho descritto, senza poi completare l'opera, il mio viaggio in Polonia, Repubblica Ceca e Germania Orientale. Preferisco, oggi, dedicarmi alle impressioni e alle sensazioni, che però, inevitabilmente, non sempre potranno essere dissociate dalla descrizione di alcuni dei luoghi visitati.

Parto dall'arrivo (e scusate l'ossimoro). Dopo il volo intercontinentale, da Roma a Boston, l'attesa all'"Immigration" è defaticante. Avevo sentito dire di super controlli, di un colloquio con l'ufficiale addetto al controllo dei passaporti, delle impronte digitali. Avevo addirittura valutato l'idea di rifare il passaporto di mia figlia tredicenne, che è un tantino cambiata rispetto alla foto del passaporto, del 2009.

Bisogna dire, innanzitutto, che a Boston la fila si biforca: da una parte vanno coloro i quali non hanno mai messo piede negli Stati Uniti, dall'altra coloro che ci sono già stati, e i cittadini statunitensi e canadesi. Dopo una fila di un'ora e mezza, abbiamo incontrato un'agente simpatica e disponibile, che ci ha fatto qualche domanda: ci ha chiesto quale fosse il motivo del nostro soggiorno negli USA, quanto tempo saremmo rimasti, e poco altro. Tutto sommato una cosa tranquilla; molto meno dell'interrogatorio a cui pensavo di essere sottoposto. Hanno preso le impronte digitali e ci hanno scattato una fotografia, a tutti tranne che a mia figlia, minore di 14 anni. Subito dopo abbiamo recuperato i bagagli, già scaricati dal nastro e ordinatamente riposti sul pavimento.

Oltre a questo, abbiamo passato altri tre controlli di frontiera, visto che la divagazione alle Cascate del Niagara e poi a Toronto (da cui siamo ripartiti verso l'Italia) ci ha portati anche in Canada, con un veloce rientro negli USA attraverso la frontiera pedonale del Raimbow Bridge, che collega le due sponde delle Cascate, e il successivo ritorno in Canada.

Posso dire che i frontalieri canadesi, che si accontentano del passaporto, senza ESTA, fanno molte più domande e sono anche un po' più acidi nel porgerle. Ero convinto che passare la frontiera tra i due Paesi del Nordamerica fosse poco più che una formalità, ma non è così.

Il viaggio tra New York e Niagara Falls (lato canadese, visto che ne esiste una città omonima nel versante USA) lo abbiamo fatto in pullman. E sapete come avviene il controllo dei passaporti? Il pullman si ferma, il povero autista scarica tutte le valigie, che vengono affidate ai passeggeri, i quali fanno la fila per fare il colloquio allo sportello con i solerti frontalieri canadesi. Se solo uno dei passeggeri ha un problema, come nel caso di una famiglia indonesiana presente nel nostro pullman, in cui madre e figlio sono stati trattenuti e intervistati singolarmente in un gabbiotto dedicato a casi problematici (non vi dico l'ansia del padre e della figlia, lasciati passare senza problemi), bisogna aspettare. E noi abbiamo aspettato un paio d'ore, fino a quando la situazione degli indonesiani è stata definita. Nel frattempo, il povero autista ha nuovamente caricato sul pullman tutti i bagagli.

Abbiamo riscontrato la stessa solerzia dei canadesi, e una maggiore flessibilità degli statunitensi quando abbiamo passato la frontiera pedonale (senza bagagli, giusto con la macchina fotografica e uno zaino) di Raimbow Bridge. Veloce, giusto un paio di domande rivolte con un tono molto tranquillo, dal lato USA. Un'ora dopo, al rientro nel versante canadese, nuovo interrogatorio: dove abitate, cosa ci fate in Canada, quanto vi tratterrete, da dove ripartirete, e via dicendo. Mi sono chiesto, fra l'altro, come avvenga il "colloquio" con coloro i quali non parlino inglese o francese.

Forse sono stato troppo prolisso, dopo aver riletto questo racconto sui controlli avrei voluto sintetizzarlo, ma ho pensato che possa essere utile, per coloro i quali non si siano mai recati negli USA, e per i più curiosi, leggere qualcosa sui controlli di sicurezza. Non vi nascondo che io ero abbastanza in ansia su questa cosa, invece l'unica cosa seccante è la fila dopo il viaggio.

Tutto il resto, se non avete niente da nascondere, fila liscio.

Vista la lunghezza di questo post, penso proprio che scriverò un racconto a puntate, sperando di non annoiarvi!

A breve posterò la seconda! Intanto guardatevi la mappa del viaggio!


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